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L’albero del pane

L’albero del pane


Ivo Poli – Associazione Castanicoltori della Garfagnana

Il grande poeta Giovanni Pascoli così descrisse il castagno, in una lettera
pubblicata nel 1908 su un giornale argentino La Prensa:
“Il castagno è il nostro albero del pane. Ci andrebbe messa, in ogni castagno,
una croce, come si fa con gli alberi divenuti sacri…”.
Il castagno era già un albero sacro oltre duemila anni fa, come ci raccontano
i grandi autori di quel tempo: Plinio, oltre a spiegarci come veniva
innestato e coltivato, ci dice anche che con la farina ottenuta dalle castagne
essiccate veniva fatto un pane che principalmente serviva come cibo
nel digiuno delle donne (nei culti femminili della grande madre Cibele, di
Cerere e di Iside, nella pratica dei quali era proibito l’uso dei cereali, sostituiti
con pane di castagne, n.d.r.); Virgilio nella I e VII Egloga delle Bucoliche
ci parla dell’utilizzo delle foglie, del frutto e di come erano tenuti bene
i castagneti:
“…Qui tuttavia potevi riposare questa notte con me su fresche foglie. Maturi
frutti abbiam, castagne buone … Rigogliosi i ginepri e ne’ lor ricci le
castagne, sott’ogni pianta sono sparsi i frutti, tutto è un fior d’intorno…”.
Altri autori, come Columella, Ovidio, Eustazio, De Candolle, Palladio
ecc., ci ricordano quanto fosse importante questo albero.
Fino ad arrivare al nostro tempo, senza dubbio il più critico per la
sopravvivenza dei castagni, a causa dello sfruttamento per l’estrazione del
tannino e per le fitopatie: dal Mal dell’inchiostro (Phitophtora cambivora),
in grado di distruggere alberi di castagno anche ultrasecolari, al Cancro
della corteccia (Cryphonectria parasitica).
Negli Stati Uniti, nei primi anni del Novecento, il Cancro corticale
distrusse buona parte del patrimonio boschivo di castagno, la sciando
sopravvivere relativamente poche piante. Negli anni trenta questa seria
fitopatia cominciò a propagarsi anche in Italia e, intorno agli anni cin-
quanta, si rilevarono importanti e gravi infestazioni. In quegli anni, grazie
a una nuova politica forestale per poter sostituire le piante di castagno con
altre essenze forestali, in base alle altitudini, al clima, all’esposizione ecc.,
sorsero vivai forestali per la produzione di nuove piantine da rimboschimento
in cui si producevano pino marittimo, pino domestico, cipresso per
gli habitat temperati; querce caducifolie, pino bruzio, pino laricio, pino
nero, abete bianco per le zone in quota e, fra le specie esotiche, cipresso
arizonico, cedro, douglasia, quercia rossa, robinia…
Dal dopoguerra e negli anni cinquanta, con l’evolversi dell’industria
abbia mo assistito alla diminuzione dell’impiego in agricoltura e allo spopolamento
della montagna che ha portato – intorno agli anni ottanta del Novecento
– a un minimo storico delle pratiche di coltivazione dei castagneti e
della presenza di alberi di castagno.
Una ripresa si è vista negli anni novanta, ripresa che continua tutt’oggi
e punta soprattutto alla produzione di farina di castagne, che in Lucchesia
è detta “Farina di Neccio”.

In Garfagnana, nel marzo 1998, si è costituita l’Associazione Castanicoltori
della Garfagnana con lo scopo di mantenere e preservare le antiche
tradizioni della cultura contadina legate all’albero del castagno e ai suoi
prodotti. Un pregevole risultato dell’impegno dell’Associazione è stato
l’aver ottenuto dalla Comunità Europea il marchio Denominazione di Origine
Protetta – DOP per la Farina di Neccio della Garfagnana, massimo riconoscimento
per un prodotto tipico.
La Lucchesia, sia a livello regionale che nazionale, è la provincia con la
maggiore superficie boschiva a castagneto: nel censimento del 1978 risultavano
ben 29.408 ettari, dei quali solo in Garfagnana 12.740 ettari di
castagneto da frutto. Oggi, secondo il censimento del 2005 fatto dalla
Comunità Montana della Garfagnana e dall’Associazione Castanicoltori
della Garfagnana, risultano a castagneto 3.000 ettari con una resa in castagne
fresche di 25.000 quintali che trasformate in farina rendono oltre
2.000 quintali. I primi 35 produttori iscritti all’albo DOP, nel primo anno di
produzione hanno prodotto circa 200 quintali di Farina di Neccio DOP.
Dalla Statistica generale degli Stati Estensi fatta da Carlo Roncaglia per
Ferrara nel 1847, risultava esistessero 2.052.157 piante di castagno da
frutto con una resa in castagne secche di 76.135 quintali.
Nel 1999 sempre sul territorio della Garfagnana sono stati raccolti
circa 20.000 quintali di castagne, dei quali 14.000 quintali sono stati venduti
come prodotto fresco e 6.000 quintali come prodotto secco, con una
resa in farina di 2.000 quintali.
Cenni storici
La coltivazione del castagno da frutto in Garfagnana, risale presumibilmente
al Mille, quando anche qui, come in molte altre zone d’Italia, si ebbe
una decisa svolta nell’economia con la messa a frutto delle aree cosiddette
incolte per far fronte a un sempre crescente incremento demografico.
Non che mancassero i castagneti nella Lucchesia altomedievale, ma la loro
presenza era considerata secondaria e il consumo di castagne marginale
rispetto ad altri alimenti più diffusi.
Nel processo di cerealizzazione dell’economia anche il bosco venne piegato
alle nuove esigenze e si ebbe così l’affermarsi del castagno, l’albero
del pane. In Lucchesia contribuì certamente alla diffusione del castagneto
da frutto Paolo Guinigi, il quale avrebbe favorito l’innesto delle cultivar più
idonee alla produzione di farina buona e serbevole, ritenendo che questa
avrebbe sfamato la famiglia per gran parte dell’anno. Questo concetto
verrà successivamente rafforzato dal Tanara nell’anno 1664, il quale nel
suo L’Economia del cittadino in villa scrive:
“I castagni sono di due sorti, selvatico il naturale, domestico l’artificioso.
Dal frutto si ricava una farina dalla quale si fa pane e di tanto nutrimento
secondo Galeno, che levatone quello di frumento nutrisce più di ogni altro
grano, e ce ne accerta vedere uomini robustissimi, e donne giovani che
nella carne somigliano al latte, e nelle guance alla rosa, vivendo solo di
questa farina e d’acqua”.
Vista così accresciuta la sua importanza alimentare e di conseguenza
quella commerciale, il castagno non poteva non avere la protezione dei
governi che si succedevano nel tempo.
Negli statuti di molti Comuni della zona, a partire dall’anno 1360
come nel caso di Barga, si leggono disposizioni severe sulla raccolta e
l’esportazione dei suoi frutti, per la farina si parla addirittura di un dazio.
Multe venivano comminate a chiunque danneggiasse o, peggio ancora,
tagliasse legname di castagno “verde o secco, silvestre o domestico”. Vale
la pena citare su tutte, una legge generale che reca una somma di norme
per il castagno: “Modus eligendi offitium super silvis et autoritas eligendi
exploratores” del 10 dicembre 1489, che costituì il fondamento della legislazione
lucchese sui castagneti. Tra i molti aspetti di questa legge è interessante
rilevare che innestando castagni si acquisiva la proprietà del
suolo avendo diritto per otto anni a usufruire del raccolto. La coltura del
castagno in Lucchesia andò sempre più diffondendosi, tanto che in Garfagnana
ben presto il suo frutto divenne fonte principale di sostentamento
per la popolazione.
Già Virgilio nella prima Egloga delle Bucoliche così si esprimeva:
“Abbiamo dei buoni frutti, delle belle castagne e cacio in quantità”, a significare
che un tempo l’alimentazione era basata essenzialmente su quanto
si riusciva a produrre in loco. E quanto avrebbe ancora inciso il castagno a
tale proposito ce lo conferma Carlo Roncaglia nel 1847, il quale nella Statistica
generale degli Stati Estensi, riferendosi alla provincia della Garfagnana,
scrive:
“…Ove i prodotti dei cereali non bastino al bisogno della popolazione, vi
suppliscono i castagneti, che vi sono spessissimi e ben distribuiti…”.
La stima era che vi fossero più di due milioni di castagni diffusi solo
nella Garfagnana estense e svariate erano le qualità coltivate, anche in
relazione all’altitudine dei siti.

Il metato di Lupinaia

Interno del metato

L’essicazione delle castagne, in Garfagnana, da sempre è avvenuta nei
metati, cioè in strutture atte a contenere il mucchio delle castagne messe
ad asciugare sopra il fuoco. Oggi i metati sono pervenuti a noi come costruzioni
in muratura, generalmente sparsi nei castagneti, di ampiezza variabile,
divisi a metà altezza da un solaio a stecche di legno poste una vicino
all’altra – il canniccio – sopra il quale vengono stese le castagne. Al piano
più basso si fa un fuoco leggero di brace, con ciocchi di castagno: il calore
e il fumo salendo verso le castagne stese sul canniccio le asciugano e le
seccano a poco a poco. Dopo circa 40 giorni nel metato i frutti sono secchi
e possono essere sgusciati e avviati alla molitura. Non è mai stato fatto un
censimento dei metati presenti in Garfagnana ma, da stime riferite alle
produzioni di farina si può calcolare che i metati attivi in provincia di
Lucca, sino agli anni cinquanta del Novecento, superassero le 7.000 unità.
Le castagne essiccate venivano trasformate in farina nei mulini di cui
era molto ricca l’intera valle. Basti pensare che nell’Ottocento, nel circondario
della Garfagnana, erano in funzione 245 mulini e questo dato, ancora
una volta, testimonia l’entità della produzione di sfarinati da destinare
all’uso alimentare. La farina di castagne, che nella zona chiamano di “neccio”,
veniva cucinata in vari modi: per lo più consumata come polenta
oppure cotta nel latte come “manafregoli” o in forno con olio e guarnita con
noci come “castagnaccio”. Ma il vero protagonista delle mense garfagnine
era il “neccio”, una schiacciatella ottenuta dalla cottura fra due testi (=
stampi, n.d.r.) di ferro di un impasto fatto semplicemente con farina di
castagne, acqua e un pizzico di sale.

Il mugnaio

Il mulino
Riguardo all’etimologia del vocabolo neccio che in zona, come già ricordato,
è sinonimo di castagno, alcuni autori fanno risalire questa parola a
epoche remote allorquando molte popolazioni si cibavano ancora di ghiande
che essiccavano, macinavano e trasformavano in pane. Le ghiande in
questione è plausibile che fossero principalmente quelle del leccio (Quercus
ilex), vista anche la sua diffusione. Quando la farina ilicea venne abbandonata
negli usi alimentari per essere sostituita da quella di castagne, più
dolce e gradevole, è possibile che nel linguaggio corrente si sia mantenuto
lo stesso aggettivo iliceus (= di leccio) anche per indicare la nuova farina.
È chiaro a questo punto, come nel corso dei secoli le vicissitudini delle
popolazioni della Garfagnana, ma anche delle zone vicine, siano state profondamente
legate al castagno tanto che questa pianta, come tanti autori
hanno affermato, ha fatto nascere attorno a sé una civiltà: la “civiltà del
castagno”.
Dalla fine degli anni cinquanta, anche in queste zone, la coltivazione del
castagno ha subito un forte regresso durante il quale si è assistito allo spopolamento
della montagna, al cambiamento delle abitudini alimentari con
forte deprezzamento della farina di castagne e, non ultimo, all’insorgere di
gravi fitopatie che hanno ridotto sensibilmente il patrimonio castanicolo.
Ma dai primi anni novanta si è vista una ripresa, ogni anno sempre maggiore
e puntata soprattutto alla produzione di farina di castagne – Farina di
Neccio – tanto che in Garfagnana si è costituita nel marzo 1998 l’Associazione
Castanicoltori della Garfagnana con lo scopo di mantenere e preservare
le antiche tradizioni, della nostra cultura contadina legate all’albero del
castagno e dei suoi prodotti.
Come già detto, nel marzo 1998 in Garfagnana si è costituita l’Associazione
Castanicoltori della Garfagnana con lo scopo di mantenere e preservare
le antiche tradizioni della cultura contadina legate all’albero del
castagno e ai suoi prodotti. Grazie all’impegno dell’Associazione, la Comunità Europea ha riconosciuto il marchio Denominazione di Origine Protetta