Stato dei castagneti da frutto in italia

  1. I castagneti da frutto in Italia: evoluzione storica e situazione attuale

La castanicoltura attuale è il risultato delle vicende socio-economiche che ne hanno segnato l’evoluzione nel XX secolo. Dettagliate analisi della storia del castagno dal passato ai giorni nostri sono state prodotte da Adua (1998, 2000, 2006).

All’inizio del Novecento, il castagno si presentava con un areale coltivato imponente, sia come superficie occupata (circa 800.000 ettari fra fustaie e cedui) sia come consistenza e produzione dei suoi popolamenti (decine di milioni di alberi che producevano un raccolto medio annuo di circa 6 milioni di quintali).

Secondo la ripartizione amministrativa del tempo, le principali Province interessate alla castanicoltura da frutto erano: Cuneo, Novara e Torino in Piemonte; Sondrio e Brescia in Lombardia; Genova in Liguria; Modena e Bologna in Emilia-Romagna; Firenze, Arezzo, Lucca e Massa Carrara in Toscana; L’Aquila in Abruzzo; Avellino e Caserta in Campania; Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria in Calabria; altre consistenti superfici erano localizzate nelle Province di Pavia, Verona, Padova, Parma, Siena, Grosseto, Perugia e Roma.

Durante i primi anni del XX secolo, ha cominciato a prendere corpo “l’autunno del patriarca” caratterizzato da una generale diminuzione della coltivazione che, però, ha mantenuto un ruolo sostanzialmente stabile nel complesso agroforestale della montagna italiana.

La statistica ufficiale, sebbene in via di formazione, iniziò a interessarsi al castagno e stimò per l’anno 1910 una superficie complessiva a fustaia pari a 652.000 ettari ed una produzione di 6,75 milioni di quintali, contro i 7,03 rilevati nel 1900. Nel 1911, è stato registrato il massimo storico della produzione di frutti: ben 8,29 milioni di quintali, con una media per ettaro di 12,7 quintali.

Durante il ventennio 1911-1930, la superficie a fustaia, per quanto in progressiva diminuzione, è rimasta relativamente stabile, intorno ad una media annua di 620.000 ettari, mentre la produzione ha oscillato notevolmente, fra i 4 e 6 milioni di quintali.

Nel 1929, il nuovo Catasto agrario ha ridimensionato alquanto i dati statistici precedenti, valutando la superficie coltivata a fustaia pari a 483.584 ettari, contro i 604.507 stimati dalla statistica forestale corrente che, per altro, ha continuato a pubblicare dati annuali, sempre superiori a 600.000 ettari, fino al 1933.

Nella ricerca di una migliore attendibilità delle stime, il contrasto fra i dati forestali e quelli agrari è stato sanato grazie ad una iniziativa forte dell’ISTAT, allora Istituto Centrale di Statistica, che decise di sottoporre ad una approfondita revisione i dati castanicoli provenienti da fonti diverse. La conclusione di tale azione, di grande rilevanza scientifica ed economica per quel tempo, ha portato alla pubblicazione dei risultati, relativi al periodo 1934-1936, dell’Indagine sulla coltivazione del castagno da frutto in Italia (Polacco, 1938).

L’Indagine fissò in 427.635 ettari la superficie dei castagneti da frutto ed in 104.530 quella degli altri boschi con castagni da frutto. All’epoca, le regioni più produttive erano, nell’ordine, la Liguria, la Toscana e la Calabria. La densità nazionale media delle colture specializzate era pari a 126 alberi per ettaro; le piantagioni più fitte si trovavano nel territorio genovese (345 piante per ettaro), mentre quelle più rade (50 piante per ettaro) erano localizzate nelle Province di Torino, Belluno, Vicenza e Viterbo.

Complessivamente, 308 varietà venivano coltivate nella quasi totalità delle Province italiane, fra i 20 ed i 1.500 metri di altezza, su 532.165 ettari ed iniziavano a produrre dall’età di 12 anni fino a 300-400 anni ed oltre; la raccolta veniva effettuata dall’1 settembre al 31 dicembre, passando e ripassando più volte sullo stesso terreno, anche mediante l’infelice pratica della bacchiatura, che consisteva nel colpire i rami con lunghi bastoni per far cadere i frutti ancora pendenti.

Il mal dell’inchiostro era già diffuso in 14 Regioni, più dettagliatamente in 407 Comuni, di cui 313 nel Nord e solo 17 nel Meridione e causava forti riduzioni produttive in Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Lazio ed Abruzzo.

Nel periodo successivo, fra il 1937 ed il 1950, la superficie complessiva a fustaia è diminuita di altri 80.000 ettari circa, passando da 532.200 a 453.500 ettari. Parimenti, è calata la produzione, che, per l’ultima volta nel 1937, ha superato i 4 milioni di quintali per poi oscillare fra i 2,1 e i 3,4 milioni fino al 1950.

Per tutta la prima metà del secolo, l’importazione di castagne è risultata inesistente, mentre l’esportazione ha contribuito notevolmente alla bilancia commerciale italiana. L’esportazione, a parte i periodi bellici, è oscillata fra i 130.000 quintali del 1919 ed i 360.000 del 1924. La stagnazione della coltura non ha mai bloccato il commercio internazionale che, ancora nel 1950, ha immesso sui mercati esteri ben 241.000 quintali di frutti freschi.

Tra il 1951 ed il 1955, la stabilità della superficie a fustaia, e la leggera ripresa della produzione media, pari a 2,72 milioni di quintali rispetto ai 2,66 registrati nel decennio precedente, hanno rappresentato l’ultima boccata di ossigeno ed il preludio al “lungo inverno” ed al grande “buco nero” che il castagno ha attraversato fra il 1956 ed il 1980, ed in particolare durante gli anni ‘60 e nei primi anni ‘70. Infatti, tra il 1951 ed il 1970, circa 4,8 milioni di addetti hanno abbandonato l’attività agricola, mentre la popolazione rurale attiva si è ridotta di oltre la metà.

L’analisi macroeconomica conferma tale evoluzione; infatti, nel ventennio 1951-1970, il contributo della castanicoltura, in termini di Produzione lorda vendibile, è sceso dall’8 al 3%  per il legno e dal 10 al 3% per i frutti. Nel 1956, il raccolto ha superato per l’ultima volta i 2 milioni di quintali, mentre nel 1965 è sceso definitivamente sotto il milione; rispetto al quinquennio precedente, nel 1956-1960, la produzione media è calata di circa 1 milione di quintali, nel decennio successivo è diminuita di altri 700.000.

La superficie a fustaia è scesa da 441.000 ettari stimati nel 1956, a 318.000 rilevati nel 1977, con un calo di ben 123.000 ettari; nello stesso periodo, i cedui castanili puri sono aumentati di 73.000 ettari, passando da 292.000 a 365.000, mentre su 50.000 ettari, le fustaie sono sparite, perché tagliate o trasformate in cedui misti o in consociazioni di latifoglie e resinose.

A partire dal 1977, e fino al 1984, la superficie a fustaia si è stabilizzata intorno a 317.000 ettari. I cedui castanili sono stati rilevati separatamente solo fino al 1978; rispetto al 1950 sono aumentati di 90.000 ettari. Nel 1977, si è conseguito il minor raccolto frutticolo del periodo esaminato, con una produzione di soli 546.000 quintali.

Dal 1971 al 1980, è proseguito il calo produttivo, ma la diminuzione è rallentata ed è stata pari mediamente a 359.000 quintali. Specialmente negli gli anni ‘70, anche l’esportazione ha risentito della decadenza generalizzata della castanicoltura; le quantità più basse, commercializzate sui mercati esteri, si sono registrate nel 1977 e nel 1980, con, rispettivamente, 161.000 e 167.000 quintali. In questa fase, è iniziata anche una discreta importazione di frutti freschi che ha raggiunto il culmine nel 1972; in quell’anno sono state introdotti in Italia 8.667 quintali di castagne.

Il punto di “non ritorno” è rappresentato dal 1985, anno in cui si sono raccolti solo 388.000 quintali di frutti freschi su 286.000 ettari. La superficie a fustaia, pari a 317.000 ettari nel 1981, è scesa nel corso degli anni ‘80 a 275.000 ettari, per poi stabilizzarsi su tale valore fino ad oggi.

Gli anni ‘80 hanno rappresentato una fase di stagnazione che ha messo fine al “lungo inverno” e preparato la ripresa della coltura del castagno. Infatti, in questo periodo, il cambiamento nello stile di vita e un rinnovato interesse per le aree marginali ed i prodotti tipici, per l’agricoltura biologica e le produzioni di qualità, insieme al regredire del mal dell’inchiostro e del cancro corticale, ha contribuito ad innescare un lento, ma continuo, processo virtuoso di riscoperta e di rivalutazione del castagno, dei frutti e del legname, nonché della storia e civiltà del “grande albero”.

A partire dalla seconda metà degli anni ‘80, la produzione si è ripresa; come evidenziato da Alvisi e Gajo (1985), tuttavia, non si è manifestato un ritorno al consumo di massa, ma la richiesta si è rivolta a merce altamente qualificata, in grado di soddisfare una domanda selezionata ed esigente, con caratteristiche quasi elitarie, rivolta anche al mercato internazionale.

Durante gli anni ‘90, la produzione frutticola ha consolidato i segni della ripresa. Intorno all’anno 2000, Adua stima (2001, 2006) produzioni raccolte sui 640.000 quintali. È interessante sottolineare che circa due terzi della produzione avviene nel Sud Italia, anche se il 70% dei castagneti è concentrato nelle regioni del Centro-Nord.

Attualmente, secondo i dati dell’INFC (2005) il 18,7 % (147.568 ha) dei boschi alti di castagno è costituito dalla sottocategoria forestale “Castagneto da frutto, selva castanile”. Il 61,2 % dei castagneti da frutto risulta concentrato in Campania, Toscana, Piemonte ed Emilia Romagna, ma le regioni maggiormente ricche di castagneti da frutto rispetto alla superficie totale di castagno sono Campania, Puglia, Marche e Sardegna. Le rimanenti regioni hanno castagneti da frutto diffusi su superfici inferiori al 20% dei soprassuoli a castagno; tra queste Valle d’Aosta, Trentino e Molise presentano una totale assenza della coltura (Tabella 1).

Le caratteristiche dei castagneti da frutto vengono trattate separatamente per le regioni con il patrimonio castanicolo più consistente (Bagnaresi et al., 1977; Grassi e Forlani, 1992; Sansavini et al., 1979).

1.1. Campania

La Campania è la regione che meno ha sofferto il fenomeno dell’abbandono, e lo stato colturale e produttivo dei castagneti è generalmente buono, tranne che per la provincia di Benevento (Sansavini et al., 1979). I castagneti non recuperabili sono quelli posti in situazioni di difficile accesso (mancanza di viabilità, eccessiva pendenza).

In provincia di Caserta le aree di maggior reddito si trovano nei comuni di Rocca Monfina, Conca della Campania, Marzano Appio e Teano. Nel beneventano esistono due aree castanicole: le pendici del Monte Taburno e la zona prossima ai comuni di Cusano Mutri e Cerreto Sannita. Nell’avellinese la castanicoltura è praticata un po’ ovunque. In provincia di Napoli e di Salerno, le zone coltivate sono poste perlopiù sulle pendici dei Monti Lattari.

Tra le cultivar si segnalano:

  • il Marrone del Monte Faito, nella provincia di Napoli;
  • il Marrone di Mercato S. Severino, nella provincia di Salerno;
  • il Marrone di Roccadaspide, nella provincia di Salerno;
  • il Marrone di San Mango del Cilento, nella provincia di Salerno;
  • il Marrone di Stio, nella provincia di Salerno;
  • il Marrone di Susa, nella provincia di Salerno;
  • la castagna Avellinese, nella provincia di Salerno;
  • la castagna dell’Abete, nella provincia di Salerno;
  • la castagna di Agerola o del Faito, nella provincia di Napoli e di Salerno;
  • la castagna di Laurito, nella provincia di Salerno;
  • la castagna di Pannarano, nella provincia di Benevento;
  • la castagna Enzeta, nella provincia di Benevento;
  • la castagna Luciente o Lucida, nella provincia di Caserta;
  • la castagna Marzara o Marzatica o Tardiva, nella provincia di Caserta;
  • la castagna Merculiana o Mercogliana, nella provincia di Caserta;
  • la castagna Montellese o Palummina, nella provincia di Avellino;
  • la castagna Montemarano o di Serino o Santimango, nella provincia di Avellino;
  • la castagna Napoletana, nella provincia di Caserta;
  • la castagna Napoletana, nella provincia di Caserta;
  • la castagna Napoletanella, nella provincia di Caserta;
  • la castagna Nserta o Nesta, nella provincia di Salerno;
  • la castagna Nserta o Nesta, nella provincia di Salerno;
  • la castagna Pacona o Pacuta, nella provincia di Caserta;
  • la castagna Rossa di San Mango, nella provincia di Avellino;
  • la castagna San Pietro, nella provincia di Caserta, in via di abbandono;
  • la castagna Tempestiva o Primitiva o Precoce, nella provincia di Caserta;
  • la castagna Verdole, nella provincia di Avellino.

1.2. Emilia Romagna

In questa regione la castanicoltura è diffusa in tutte le province, dove vengono coltivati diversi tipi di marroni che prendono il nome dalla località di origine. Un tempo i castagneti erano coltivati nelle zone difficilmente accessibili, riservando le zone più coltivabili ad altre colture. Questo fatto ha costituito un fattore di abbandono più che in altre regioni.

Secondo Pisani et al., nel 1977 i castagneti da frutto coltivati ammontavano a circa 2300 ha, di cui circa 1900 ha a Marroni. Per gli Autori, il 25% dei castagneti abbandonati (circa 5000 ha) era potenzialmente suscettibile di recupero per la produzione del frutto. Da quanto riportato in Fiorentini (1984) i castagneti da frutto sono passati da circa 45000 ha nel 1950 a circa 21000 ha nel 1981. Nello stesso anno, i castagneti coltivati risultavano essere circa 3000 ha.

Gli studi effettuati sulla identificazione varietale (Bagnaresi et al., 1977) confermano che i vari tipi identificati corrispondono a genotipi relativamente omogenei e in qualche caso a una sola entità varietale, probabilmente a causa del fatto che la maggior parte dei castagneti da frutto deriva da innesto.

Tra le cultivar si segnalano:

  • il Marrone Casentinese, nella provincia di Reggio Emilia;
  • il Marrone Casola Valsenio, nelle valli del Senio (FI) e del Lamone (RA);
  • il Marrone Castel del Rio, nella Valle del Santerno (BO);
  • il Marrone di Brisighella, nella provincia di Ravenna;
  • il Marrone di Chiusa Val Pesio, nella provincia di Modena;
  • il Marrone di Fontanelice, nella provincia di Bologna;
  • il Marrone di Forlì, nella provincia di Forlì;
  • il Marrone di Reggio Emilia, nella provincia di Reggio Emilia;
  • il Marrone di San Benedetto Val di Sambro, nella provincia di Bologna;
  • il Marrone Montepastore, nella valle del Lavino (BO);
  • il Marrone Pavullo, in provincia di Modena;
  • la castagna Biancola, nella provincia di Bologna;
  • la castagna Boneifra, nella provincia di Piacenza;
  • la castagna Cardnine, nella provincia di Parma;
  • la castagna Carpanese, nella provincia di Reggio Emilia e di Bologna;
  • la castagna Castenia, nella provincia di Parma;
  • la castagna Cicona, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Fransigliona, nella provincia di Piacenza;
  • la castagna Franzona, nella provincia di Piacenza;
  • la castagna Garfagnina, nella provincia di Modena e Reggio Emilia;
  • la castagna Incardina, nella provincia di Parma;
  • la castagna Incarsola, nella provincia di Piacenza;
  • la castagna Lioiola, nella provincia di Bologna;
  • la castagna Lovetta o Luetta, nella provincia di Parma;
  • la castagna Maggiona, nella provincia di Piacenza;
  • la castagna Mandabrocco, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Mandaiola, nella provincia di Parma;
  • la castagna Marzola, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Massangaia, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Massese, nella provincia di Parma;
  • la castagna Molana, nella provincia di Bologna;
  • la castagna Negrigiola, nella provincia di Piacenza;
  • la castagna Nigretta, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Pastinese, nella provincia di Modena, Bologna e Forlì;
  • la castagna Perona, nella provincia di Piacenza;
  • la castagna Pistolese, nella provincia di Bologna e Forlì;
  • la castagna Piulzela, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Plosino, nella provincia di Parma;
  • la castagna Polidole, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Reggiolana, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Rossalde, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Rossola, nella provincia di Reggio Emilia;
  • la castagna Sborga Nero, nella provincia di Bologna;
  • la castagna Siasera, nella provincia di Piacenza;
  • la castagna Tingin, nella provincia di Parma;
  • la castagna Tosco, nella provincia di Parma;
  • le castagne Selvatiche, nella provincia di Parma, Piacenza e Reggio Emilia.

1.3. Toscana

Secondo Pisani et al., nel 1977 i castagneti da frutto erano coltivati su circa 20000 ha, e all’incirca la stessa superficie era potenzialmente suscettibile di recupero. Da quanto riportato in Fiorentini (1984) i castagneti da frutto sono passati da circa 125000 ha nel 1950 a circa 68000 ha nel 1981. Nello stesso anno, i castagneti coltivati risultavano essere circa 18000 ha.

I marroni sono diffusi nelle province di Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno e Pisa.

Tra le cultivar si segnalano:

  • il Marrone Bellone, nella provincia di Grosseto;
  • il Marrone Cecio, nella provincia di Grosseto;
  • il Marrone del Monte Amiata, nella provincia di Siena e Grosseto;
  • il Marrone di Bucine, nella provincia di Arezzo;
  • il Marrone di Caprese Michelangelo, nella provincia di Arezzo;
  • il Marrone di Loro Ciuffenna, nella provincia di Arezzo;
  • il Marrone di Marradi, nella provincia di Firenze;
  • il Marrone di Massa Marittima, nella provincia di Grosseto;
  • il Marrone di Montevarchi, nella provincia di Arezzo;
  • il Marrone di Pisa, nella provincia di Pisa;
  • il Marrone di Sassetta, nella provincia di Livorno;
  • il Marrone di Siena, nella provincia di Siena;
  • il Marrone di Sorano, nella provincia di Grosseto;
  • il Marrone di Stia, nella provincia di Arezzo;
  • il Marrone Palazzuolo sul Senio, nella provincia di Firenze;
  • la castagna Ballocca, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Bastarda, nella provincia di Grosseto;
  • la castagna Biancana, nella provincia di Massa;
  • la castagna Brandugliane, nella provincia di Firenze;
  • la castagna Bresciana, nella provincia di Massa;
  • la castagna Capannaccia, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Caralisi, nella provincia di Firenze;
  • la castagna Cardaccia, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Carpinese, nella provincia di Grosseto, Livorno, Lucca, Massa, Pisa, Pistoia e Siena;
  • la castagna Cassarese, nella provincia di Pistoia;
  • la castagna Castagnola, nella provincia di Firenze;
  • la castagna Chifentina, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Culobianco, nella provincia di Siena;
  • la castagna Domestica, nella provincia di Grosseto;
  • la castagna Fosetta, nella provincia di Massa;
  • la castagna Frescona, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Gombitello, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Granaiola, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Luccichente, nella provincia di Grosseto e Siena;
  • la castagna Lucignana o Pelosorino, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Mandolo, nella provincia di Pistoia;
  • la castagna Mazzangaia, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Molano, nella provincia di Pistoia;
  • la castagna Morbide, nella provincia di Firenze;
  • la castagna Morona, nella provincia di Lucca e Pisa;
  • la castagna Mozze o Mozzaiolo, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Nerattino Sambucano, nella provincia di Pistoia;
  • la castagna Nerona, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Pastinese, nella provincia di Lucca e Pistoia;
  • la castagna Pastorese, nella provincia di Arezzo;
  • la castagna Pego, nella provincia di Pistoia;
  • la castagna Perella, nella provincia di Arezzo;
  • la castagna Pistolese, nella provincia di Arezzo, Firenze, Grosseto, Pisa e Siena;
  • la castagna Punticosa, nella provincia di Lucca e Massa;
  • la castagna Raggiolana, nella provincia di Arezzo e Pisa;
  • la castagna Rastellina, nella provincia di Massa;
  • la castagna Rossana, nella provincia di Livorno;
  • la castagna Rossella, nella provincia di Lucca, Massa;
  • la castagna Rossolina, nella provincia di Grosseto e Siena;
  • la castagna Selvana, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Selvarina, nella provincia di Arezzo;
  • la castagna Selvatica, nella provincia di Arezzo;
  • la castagna Stoiese o Storese, nella provincia di Firenze;
  • la castagna Tigolese, nella provincia di Arezzo;
  • la castagna Tossolana, nella provincia di Grosseto;
  • la castagna Verdarella, nella provincia di Lucca;
  • la castagna Vernacchia o Selvanella, nella provincia di Lucca e Pisa;
  • la castagna Vitarina, nella provincia di Arezzo.

1.4. Piemonte

In Piemonte la castanicoltura è diffusa perlopiù nelle province di Cuneo e Torino. Nel torinese si producono quantitativi minori rispetto alla provincia di Cuneo, ma sono presenti parecchie cultivar interessanti.

Tra le cultivar si segnalano:

  • il Marrone di Bruzolo, in Val di Susa (TO);
  • il Marrone di Chiusa Pesio, in provincia di Cuneo;
  • il Marrone di Lusernetta, in Val Pellice (TO);
  • il Marrone di Meana, in Val di Susa (TO);
  • il Marrone di Perosa Argentina, in Val Chisone (TO).
  • il Marrone di S. Giorio, in Val di Susa (TO);
  • il Marrone di Villar Pellice, in Val Pellice (TO);
  • la castagna Bracalla, in provincia di Cuneo;
  • la castagna Gabbiana, diffusa nel monregalese (CN);
  • la castagna Gabiola, nella zona di Barge (CN);
  • la castagna Garrone, nella zona di Boves e Bernezzo (CN);
  • la castagna Gioviasca, diffusa in Provincia di Torino;
  • la castagna Madonna di Canale, nella zona di Canale d’Alba (CN);
  • la castagna Marrubia, nella zona di Bernezzo (CN);
  • la castagna Neirana, diffusa in Provincia di Torino;
  • la castagna Salenga, diffusa in Val di Susa (TO);
  • la castagna Selvaschina, in provincia di Cuneo;
  • le castagne Pelose, diffuse in Provincia di Torino;
  • le castagne Rossete, diffuse in Provincia di Torino.
  • Stato di criticità e motivazioni di abbandono

          Il castagneto da frutto ha attraversato nel XX secolo una fase recessiva determinata da molteplici cause di natura tecnica e socio-economica (Alvisi, 1979). Tra le cause che hanno determinato l’abbandono della coltivazione si possono elencare:

  • lo spopolamento della montagna e della collina;
  • l’emigrazione interna ed internazionale dei montanari, specialmente degli uomini;
  • l’inurbamento e l’industrializzazione;
  • la sottrazione di aree per fini turistici;
  • la frammentazione aziendale;
  • le differenti esigenze alimentari;
  • l’introduzione di nuovi modelli culturali;
  • l’introduzione di differenti coltivazioni agrarie;
  • una generale diminuzione delle pratiche agroforestali;
  • carenze nella legislazione forestale;
  • la diffusione di patologie (mal dell’inchiostro e cancro corticale).

          L’abbandono della castanicoltura ha comportato: la ceduazione di considerevoli superfici a fustaia; una diminuzione delle cure colturali di norma praticate; la sostituzione dell’estratto tannico con sostanze concianti sintetiche; una riduzione nell’utilizzo della paleria; una diminuzione dell’uso della legna da ardere e di quella per carbone; l’ulteriore diffusione delle malattie che hanno causato innumerevoli vittime e incentivato ancor più l’abbandono, il taglio e la ceduazione delle fustaie; la diminuzione della produzione dei frutti e del legname.

  • Convenienza del ripristino

          Recentemente, con il diffondersi di un nuovo modello di sviluppo locale integrato e basato sulla valorizzazione di tutte le peculiarità qualitative della montagna, si sta manifestando un rinnovato interesse per la castanicoltura (Adua et al., 2002).

          La definizione di nuovi ruoli che il castagno può svolgere assume oggi una rilevante importanza, sia nella politica forestale regionale, sia nella più vasta azione di promozione e recupero della presenza dell’uomo nel territorio rurale e montano, a presidio del territorio, quale pilastro della difesa idrogeologica, ambientale e paesaggistica (Tagliaferri et al., 2002). In una fase di consumi alimentari stagnanti, la qualità, la tipicità e il valore aggiunto (storia, cultura, tradizione, dietetica, gastronomia) legati alla castagna possono consentire il successo e la creazione di nicchie di mercato redditizie per i produttori.

          Il recupero e il mantenimento delle selve castanili si può basare su presupposti diversi a seconda delle funzioni che gli si attribuiscono, al di là di quella tradizionale di produzione dei frutti (Bounous, 2006; Mariotti et al., 2009).

          La funzione produttiva può anche riguardare prodotti secondari, quali funghi, piccoli frutti e miele. Il mantenimento delle attività nel castagneto comporta anche la cura delle piccole infrastrutture atte a regolare il deflusso delle acque e limitare l’erosione contribuendo così a proteggere il territorio nei confronti del dissesto idrogeologico. La selva, come testimonianza dell’opera dell’uomo e per il suo valore estetico, assume un ruolo importante anche in attività di tipo ricreativo (es. agriturismo e feste paesane) e didattico (percorsi e sentieri sulla cultura e coltura del castagno).

          Inoltre, i castagneti da frutto contribuiscono alla conservazione della biodiversità a più livelli: intraspecifico, di soprassuolo e a scala di paesaggio. La tutela delle selve permette di non disperdere il patrimonio varietale selezionato in secoli di attività castanicola (oltre 300 varietà di frutti). I castagneti da frutto sono ricchi di biodiversità animale e il loro mantenimento può perciò rendersi quasi necessario nel contesto di aree protette (Parchi nazionali e regionali, SIC e ZPS, ecc.).

          Il castagneto da frutto è infine un elemento caratteristico nelle tessere di un paesaggio; in alcuni contesti, dove la presenza del castagno si è di molto ridotta a seguito dell’abbandono, può addirittura risultare un elemento di rarità da conservare.

          La ripresa della castanicoltura da frutto dipende da una serie di fattori biologici, tecnici e socio-economici, e presuppone l’esistenza di alcune condizioni basilari affinché ogni forma di intervento possa avere effetti efficaci e duraturi nel tempo (Giannini e Proietti Placidi, 1997). La situazione di degrado in cui si trova un castagneto è dovuta infatti a cause molteplici che possono agire sia singolarmente che congiuntamente.

  • Condizioni stazionali

          Nel passato la diffusione dei castagneti da frutto è stata spinta anche in ambienti al limite delle valenze autoecologiche della specie. Il ripristino dovrà riguardare solo le condizioni ambientali più favorevoli e le aree caratterizzate da soddisfacente fertilità. Si ricorda che le varietà di pregio sono spesso le più esigenti nei confronti dei parametri cli­matici e delle disponibilità idriche e di ele­menti nutritivi.

          Specialmente in sede di programmazione regionale e di attuazione degli interventi pubblici, vanno incentivate e promosse le opere di riconversione e di costituzione di nuovi impianti da realizzare in zone di incontestabile, accer­tata, vocazione ambientale, intesa, questa, nella sua acce­zione agronomica, cioè di area con caratteristiche pedoclimati­che corrispondenti all’habitat ottimale delle cultivar con­siderate, e con ubicazione tale (per vicinanza e collegamento a centri abitati, pendenza dei terreni, viabilità, ecc.) da consentire una economica gestione. Eventuali interventi pubblici finalizzati alla tutela del paesaggio, dell’ambiente o del territorio ove si trovano castagneti abbandonati esulano ovviamente da tali considerazioni.

          Gli interventi selvicolturali volti al ripristino della coltivazione devono essere concentrati in quelle zone che risultano comprese entro i limiti ecologici del castagno. La letteratura forestale è ricca di indicazioni circa l’autoecologia di questa specie. L’analisi dei singoli fattori ambientali costituisce senza dubbio un valido approccio per la stima della potenzialità della stazione. Non deve però essere trascurato lo studio della vegetazione spontanea, soprattutto per i soprassuoli non più coltivati (Ciancio et al., 2002).

          Nel dettaglio, vanno escluse le stazioni che rientrano nelle fasce fitoclimatiche collinare-mediterranea e (limitatamente alla produzione di frutto) submontana, nonché quelle a substrato marnoso-arenaceo o calcareo non dilavato. Studi effettuati da (Bianchi et al., 2002) in Toscana riferiscono che il recupero e la ricostituzione andrebbero limitati ai casi riferibili ai suoli acidi e suoli mesici.

  • Aspetti vegetazionali e strutturali

          La durata del periodo di abbandono, le modalità e le vicissitudini del castagneto condizionano, congiuntamente ai fattori sta­zionali, in modo determinante lo stato vege­tazionale e strutturale del castagneto stes­so. Questo può avere perso definitivamente la fisionomia iniziale ed avere assunto una tipicizzazione forestale assai diversa ad ele­vata stabilità, a cui non può essere opportu­no considerare con favore il ripristino del castagneto primitivo.

          Indagini specifiche in questo settore hanno evidenziato ad esem­pio che la presenza di oltre 500-600 fusti ad ettaro, con fasi di sviluppo spessina e/o perticaia di specie diverse dal castagno, potrebbe rappresentare un indice sintetico facilmente individuabile circa la conve­nienza o meno di operare con il ripristino.

  • Situazione fitosanitaria

          La presenza di patogeni in fase di aggressività può sconsigliare qualsiasi intervento di ripristino. è necessario pertanto disporre di dati puntuali sulla situazione sanitaria e sulle caratteristiche dei patogeni più importanti, sulla loro aggressività, sulla loro tendenza evolutiva ovvero sulla frequenza specifica di linee competitive a basso tasso di virulenza, non­ché sulla presenza e stabilità di concorrenti e/o predatori.

  • Qualità del frutto

          Il recupero della castanicoltura da frutto è una operazione senza dubbio impegnativa ed il suo successo è, in primo luogo, funzione della qualità del prodotto. La castanicoltura moderna deve necessariamen­te basarsi su cultivar con caratteristiche tali da renderle apprezzate dal mercato. L’affermazione commerciale dei marroni e delle castagne è quindi strettamente connessa al loro miglioramento varietale e colturale (Tani e Canciani, 1993). Senza varietà e portainnesti adatti, senza la messa in at­to di impianti che consentano la meccanizzazione integrale di tutte le operazioni colturali e, almeno in prospettiva, anche di quelle della rac­colta, sarebbe vano attendersi risultati positivi (Alvisi e Gajo, 1985).

Le cultivar a cui si ricorre con maggiore frequenza ap­partengono ai gruppi dei «marroni» o «marroni simili». Le caratteristiche varietali possono passare in secondo piano solo nei casi in cui il castagneto assuma aspetti prevalentemen­te nell’ambito della conservazione ambienta­le e di interesse paesaggistico.

          Si elencano di seguito i principali caratteri che determinano il pregio di una cultivar.

1) Pezzatura: normalmente viene definita dal numero di frutti per chilogrammo; tale carattere però appare più utile alla valutazione di una partita di prodotto che alla caratteriz­zazione assoluta di una cultivar. In ogni caso, cultivar che normal­mente presentano più di 2 o 3 frutti perfettamente sviluppati per riccio quasi mai presentano castagne di dimensioni apprezzabili. In generale i frutti più grossi appartengono a varietà ascrivibili al grup­po del «marrone avellinese» (circa 40 castagne per ottenere 1 kg).

2) Numero semi: le cultivar migliori sono caratterizzate dall’avere pochissimi frutti con più di un seme. Secono alcuni studiosi tale ca­rattere è sotto forte controllo genetico per cui oltre ad una oculata scelta della varietà può risultare molto proficua anche una successi­va selezione all’interno di essa.

3) Profondità dei solchi: alcune cul­tivar presentano, con elevata frequenza, frutti con profonde e strette introflessoni dell’episperma all’interno dei cotiledoni. Tale caratte­ristica dequalifica il prodotto, soprattutto se la sua destinazione è l’industria dolciaria in quanto rende difficoltosa l’eliminazione, con metodi speditivi, della sottile pellicola (episperma) che avvolge il se­me.

4) Qualità organolettiche: questo carattere è di particolare im­portanza se si intende destinare il prodotto al consumo fresco. Per l’industria dolciaria invece non ha molto significato il fatto che il frutto sia sapido in quanto le operazioni di trasformazione tendo­no ad attenuare e uniformare il sapore.

          Tra i frutti che rispondono positivamente ai requisiti sopra elen­cati vanno ricordati i vari «marroni». I marroni si differenziano dalle normali castagne per avere un pericarpo marrone chiaro, interval­lato da striature scure. La porzione sottostante la torcia è coperta da un denso strato di peluria bianca e in generale hanno una forma «squadrata» che si differenzia da quella delle altre castagne che ri­sulta «a goccia». Una ulteriore particolarità del marrone è dovuta al fatto che pre­senta amenti maschili anormali, che non producono polline (asta­minei) o ne producono quantità assai modeste (brachistaminei).

          In alcu­ne regioni si continuano a commercializzare come “marroni’ o “ castagne marroni-simili’ vari tipi di castagne prescindendo totalmente da qualsiasi classificazione sistematica o pomologica, mentre, anche per le castagne, la denominazione più corrente è spesso legata al luogo di produzione anziché alla entità varietale.

          3.4.1. Scelta della cultivar

          In ciascuna regione o area di coltivazione occorre individuare le cultivar ed i cloni di marroni e di castagne non solo commercialmente bene accetti, ma anche agronomicamente ri­spondenti (per produttività e valore intrinseco) ed eventual­mente idonei ad usi industriali alternativi (per es. industria dolciaria, ecc.) (Sansavini et al., 1979).

          Bisogna quindi procedere anzitutto ad un lavoro di valutazione comparata delle varie cultivar (ove non si sia ancora in presenza di popolazioni eterogenee di castagni, talora nemmeno innestati, nel qualcaso si dovrebbe passare prima attraverso una fase di “selezione massale”) e ad u­na conseguente “selezione clonale”, sul posto, delle cultivar più interessanti come i marroni, costituenti degli ecotipi geograficamente poco distinti ed a presunta strettissima parente­la genetica (“linkats epistatici”) o divenuti nel tempo policlonali per possibili mutazioni gemmarie spontanee. Tale comples­so lavoro non può essere che svolto da Istituti Scientifici competenti ed è già stato fruttuosamente avviato in varie regioni, in particolare in Piemonte, in Emilia-Romagna, in Toscana e in Campania (Eynard e Paglietta, 1966; Bagnaresi et al., 1977; Grassi e Pugliano, 1977).

          In parallelo, man mano che vengono individuati i cloni migliori, (es. Marroni di S. Giorio e di Chiusa Pesio in Piemonte; Marroni di Castel del Rio, di Casola Valsenio e di Pavullo, in Emilia-Romagna; Marroni di Marradi e di Caprese Michelangelo in Toscana, ecc.) si dovranno creare a­ree comparative e dimostrative a disposizione dei produttori, affinché questi possano facilmente valutarne i pregi e confron­tarne il comportamento con le cultivar localmente diffuse.

          Se nella zona in cui si intende operare esiste già una cultivar di pregio, apprezzata dal mercato, sarà buona nor­ma orientarsi su questa, individuando, per la raccolta delle marze, le migliori piante per condizioni fitosanitarie e per pezzatura dei frutti, in soprassuoli vicini al luogo in cui dovranno essere effettua­ti gli innesti.

          Frequentemente però ci si trova nel caso in cui le cultivar pre­senti producono castagne da farina o comunque non corrisponden­ti alle esigenze del mercato. In questo caso affinché l’operazione di costituzione del nuovo castagneto diventi conveniente, occorrerà puntare su cultivar di provata qualità.

          L’introduzione di cultivar in un nuovo ambiente presenta dei rischi non indifferenti: possono verificarsi fenomeni di scarso adattamento, disaffinità con i sog­getti della popolazione selvatica di castagno oppure si può assistere ad un cambiamento più o meno deciso di alcune caratteristiche ori­ginarie del frutto soprattutto per quanto riguarda le sue dimensioni. Il ricorso a nuove cultivar su ampia scala è consigliabile sola­mente se si dispone di informazioni derivanti da precedenti espe­rienze o da impianti sperimentali costituiti per il confronto varietale.

          Si tenga presente inoltre che gli individui con caratteristiche su­periori hanno necessità di essere allevati in situazioni ambientali par­ticolarmente favorevoli, tali da permettere ai genotipi l’estrinseca­zione delle loro potenzialità. Ne consegue che il castagneto deve es­sere localizzato in aree le cui condizioni ambientali siano il più vici­no possibile all’optimum della specie. Risultano indispen­sabili i seguenti requisiti: terreno di buona fertilità a reazione acida o subacida, localizzazione a quote comprese fra i 400 e i 700 m (fi­no a 800 m, nelle esposizioni più calde) e in zone non soggette a gelate tardive.

          Se, infine, si ritiene che il futuro castagneto sia localizzato in una zona con scarsità di polline, è buona norma innestare alcuni soggetti (4 o 5 ad ettaro, uniformemente distribuiti) con cultiva ritenute «buo­ne impollinatrici» (es. Pistolese, Carpinese, ecc.) oppure la­sciare crescere indisturbato qualche pollone o semenzale di «selvati­co». La presenza di un bosco ceduo nelle immediate vicinanze ga­rantisce di per sé la presenza di un adeguato apporto di polline.

  • Accessibilità al castagneto

          Sono necessarie osservazioni nei con­fronti della pendenza ed orografia, dell’accidentalità, della accessibilità e via­bilità. L’esecuzione delle operazioni di ripristino e di pratica colturale è infatti oggigiorno condizionata dall’impiego diretto (o indiretto) di mezzi meccanici (operatività degli inter­venti e/o supporto ai trasporti e trasferi­menti). In alternativa vi è il lavoro manuale con costi e tempi alti e rese basse.

  • Ampiezza del castagneto

          Diverse analisi condotte in castagneti abbandonati hanno dimostrato che frequentemente le colture sono estese su pochi ettari e quindi incentrate sul lavoro di piccole aziende a conduzione familiare.

          Dal punto di vista tecnico il ripristino può riguardare anche solo poche piante. Tuttavia, la presenza di aree relati­vamente ampie determina situazioni più favorevoli; l’ampiezza “aziendale” può essere realizzata anche attraverso forme associative.

  • Maggiore professionalità dei produttori

          Occorre acquisire consape­volezza che la castanicoltura da frutto ha una sua peculiare fisionomia, assimilabile più a quella delle altre colture frut­ticole specializzate che alle tradizionali colture legnose fo­restali. Ciò significa pure che, dal momento della piantagione fino a quello della raccolta, occorre adottare criteri, metodi e mezzi di coltivazione spesso diversi da quelli abituali per la castanicoltura da legno.

          Tali obiettivi non potranno essere raggiunti che nei castagneti di nuovo impianto mentre in quelli esistenti si dovranno valutare, caso per caso, i costi delle opere di trasformazione e gli obiettivi raggiungi­bili a breve e medio termine compatibilmente con il graduale, necessario cambiamento di mentalità degli operatori castanicoli. Questi purtroppo, anche per i loro diversi interessi professio­nali, non hanno di solito molte occasioni di acquisire una spe­cifica preparazione professionale.

  • Presenza di personale idoneo alla coltivazione

          La reperibilità di manodopera qualificata è sicuramente oggi più grave di quello dei costi del lavoro che tendono ormai ad eguagliare quelli delle altre attività agricole (Pennacchini e Vanni, 1977; Sansavini et al., 1979).

          La carenza di manodopera stagionale specializzata (le 15/20 giornate lavorative/ha/anno sono infatti troppo poche per offrire alle maestranze possibilità di permanente sistemazione), suggerisce la promozione di forme di conduzione diverse, adatte ai tem­pi, come quelle basate sulla commissione dei principali lavori (innesti, potature, ripulitura e sistemazione dei terreni, ecc.) a squadre operative dotate anche dei mezzi meccanici necessari (moto-seghe, decespugliatrici e irroratrici semoventi, attrezzature da raccolta, ecc.). Solo la raccolta da terra, qualora il terreno sia già stato predisposto, potrebbe essere eseguita anche da manodopera estemporanea non specializzata, come studenti, agroturisti, ecc.

  • Recupero e ricostituzione del castagneto da frutto

          Esperienze condotte per oltre quindici anni dall’Istituto di Selvicoltura dell’Università di Firenze dimostrano che nel mosaico di situazioni diverse in cui si possono trovare i castagneti abbandonati si può porre rimedio adottando, a seconda dei casi, le seguenti linee operative (Giannini e Proietti Placidi, 1997; Tani e Canciani, 1993):

  • il recupero del castagneto e delle vecchie piante tramite interventi più o meno drastici di potatura;
  • il taglio del soprassuolo ed esecuzione di nuovi innesti sui polloni che ne derivano;
  • la combinazione dei due interventi.

          Dal confronto fra potatura e capitozzatura emerge che entram­be sono operazioni utili al recupero di vecchi castagneti; si tenga presente però che alla capitozzatura è bene ricorrere solo nel caso in cui la chioma sia realmente irrecuperabile nella sua globalità. Le piante capitozzate infatti hanno necessità di più interventi per regolarizzare la confor­mazione della chioma e inoltre richiedono tempi più lunghi per rien­trare in produzione.

          Mariotti et al. (2009), propongono una serie di interventi a seconda dei seguenti tipi di castagneto da frutto:

  • Specializzato: castagneto in cui la funzione principale è la produzione di frutto e in cui il modulo colturale è finalizzato ad ottimizzare il prodotto ottenibile. Si prevedono cure colturali intensive ed assidue (in relazione alle potenzialità stazionali) basate su innesti (a riempimento); potature di rimonda o di ringiovanimento (anche capitozzatura); ripuliture frequenti; raccolta meccanizzata; sistemazioni del terreno; mantenimento delle infrastrutture; miglioramento dell’accessibilità.
  • Tradizionale: castagneto in cui l’importanza dell’aspetto produttivo, comunque primaria, decresce a favore dell’assolvimento di altre funzioni. L’intensività delle cure colturali diminuisce in relazione alla riduzione della produzione di frutto: innesti per il recupero produttivo o per conservazione di germoplasma; potature per rinnovo o strutturazione della chioma; ripulitura; sistemazioni del terreno; mantenimento di infrastrutture o aggiunta di strutture per accesso e fruibilità e/o di materiale informativo.
  • Per sola raccolta: castagneto con bassa produttività; la raccolta è destinata all’autoconsumo. Si tratta di selve mantenute o recuperate con operazioni colturali minime. Possono essere rilevanti gli aspetti turistico-ricreativi o di conservazione di biodiversità. Le cure colturali sono minime: ripulitura; eventuale potatura per recupero di piante senescenti o per raccolta di materiale di propagazione.
  • Monumentale: soprassuolo costituito da individui di età e dimensioni considerevoli (tronco e chioma); il principale valore di questi soprassuoli consiste nell’essere testimonianza di una civiltà del passato e nella loro alta valenza paesaggistica. Le cure colturali sono finalizzate alla conservazione del vecchio impianto, come testimonianza della passata coltura: potature di ringiovanimento, sfoltimento, rinnovo o ristrutturazione della chioma; innesti per recupero e per conservazione di germoplasma; ripulitura; strutture per accesso e fruibilità. La capitozzatura è da evitare.
  • Considerazioni conclusive

          Per quanto elevato possa essere lo stato di degrado in cui piante secolari di castagno possano venire a trovarsi, tecnicamente il loro recupero è da ritenersi possibile nella maggioranza dei casi. Non è tuttavia oppor­tuno intervenire in quei castagneti il cui abbandono è dipeso dal mal dell’inchiostro (Phytophthora cambivora). La presenza, invece, di sporadici attacchi da parte della Cryphonectria parasitica può essere considerata non limitante ai fini degli interventi di recupero delle vec­chie piante.

          Nelle prospettive di ripresa della castanicoltura emerge chiaramente che, in varie zone di coltura, specie di alcune province, mancando alcuni dei presupposti citati precedentemente, non sarà possibile recuperare in termini economicamente validi la maggior parte della castanicoltura da frutto (la superficie recuperabile di solito non va oltre il 20/40% delle aree di ca­stagneto esistenti).

          Le province nelle quali si è maggiormente fiduciosi per un rilancio della coltura, anche per i nuovi impianti poterizialmente attuabili, sono, nell’ambito delle quattro regioni considerate: Torino e Cuneo; Bologna, Forlì, Parma, Ravenna; Firenze e Arez­zo; Avellino, Caserta e Salerno.

Tabella 1. Estensione della sottocategoria forestale Castagneti da frutto, selve castanili in Italia (Fonte: INFC, 2005).

Distretto territorialeSuperficie Castagneti da frutto, selve castanili  (ha)Totale Castagneti (ha)
Piemonte20652169075
Valle d’Aosta03853
Lombardia925782872
Alto Adige3781512
Trentino01802
Veneto186818302
Friuli V.G.74313378
Liguria9526110278
Emilia Romagna1140241929
Toscana33964156869
Umbria3692581
Marche18583344
Lazio589535003
Abruzzo17105068
Molise0390
Campania3564053200
Puglia7771165
Basilicata26056701
Calabria932869370
Sicilia3799476
Sardegna11192239
Totale147568788408

 BIBLIOGRAFIA

Adua M., 1998. Storia del castagno dal Miocene ai giorni nostri. Atti del Convegno “Il castagno, risorsa per le aree interne”, Serzale (CZ), 5 dicembre 1997. Pp. 15-25.

Adua M., 2000. Il castagno: un albero da riscoprire. Edizioni Adramo, Catanzaro. 158 p.

Adua M., 2001. Il castagno in Italia e in Liguria: storia, attualità e prospettive. Atti del Convegno Nazionale Castanea 2000 “Il castagneto, risorsa paesaggistica ed economica delle aree rurali”, Torreglia (GE), 20 novembre 2000.

Adua M., 2006. La filiera “castagno da frutto” in Italia: storia, attualità, problematiche e prospettive. Atti del “IV Convegno Nazionale Castagno 2005”. Montella (AV), 20-22 ottobre 2005. Pp. 112-117.

Adua M., Bernetti I., Pinnavaia G.G., 2002. Castanicoltura da frutto e da legno: produzione, trasformazione e aspetti economici. Atti del “Convegno Nazionale Castagno 2001”, Marradi (FI), 25-27 ottobre 2001. Pp. 235-243.

Alvisi F., 1979. Situazione economico-commerciale del castagno in Italia. In: Produttività e valorizzazione dei castagneti da frutto e dei cedui di castagno. Accademia Nazionale di Agricoltura, Bologna. Pp. 11-83.

Alvisi F., Gajo P., 1985. Problemi economico-commerciali del castagno. Atti del “2° Convegno Interregionale del Castagno, Prima Giornata”, Castel del Rio, 14 maggio 1983. Pp. 23-65.

Antonaroli R., Bagnaresi U., Bassi D., 1983. Indagini preliminari sul­ la variazione di caratteri morfologici in popolazioni di castagno da frutto nella provincia di Bologna. Monti e Boschi, 1.

Bagnaresi U., Bassi D., Casini E., Conticini L., Magnani G.P., 1977. Contributo all’individuazione delle cultivar di castagno tosco-emiliane. Atti “Giornata del Castagno”, Caprese Michelangelo (AR), 3 dicembre 1977. Pp: 165-263.

Bagnaresi U., Bassi D., Colò V., Lunati U., Regazzi D., Sansavini S., 1984. Ricostituzione di un castagneto da frutto: valutazioni tecnico­ economiche. Rivista di frutticoltura n. 3/4.

Baldini E., 1959. Contributo allo studio delle cultivar di castagno della provincia di Arezzo. C.N.R. Centro Studi sul Castagno Firenze, publicaz. N. 5.

Bianchi L., Maltoni A., Paci M., Ravaioli G., Milandri M., 2002. Tipologia evolutiva dei castagneti abbandonati nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Atti del “Convegno Nazionale Castagno 2001”, Marradi (FI), 25-27 ottobre 2001. Pp. 373-379.

Bounous G., 2006. Aspetti paesaggistici, ambientali e culturali della castanicoltura nel terzo millennio. Atti del “IV Convegno Nazionale Castagno 2005”. Montella (AV), 20-22 ottobre 2005. Pp. 131-136.

Breviglieri N., 1955. Indagini ed osservazioni sulle migliori veri età italiane di ca­stagno. C.N.R. Centro Studi sul Castagno, Firenze, pubblicaz. N. 2.

Breviglieri N., 1958. Indagini ed osservazioni sulle cultivar di castagno nella pro­vincia di Lucca. C.N.R. Centro Studi sul Castagno, Firenze, pubblicaz. N. 4.

Bufferli U., 1951. Indagini sulle varietà di castagno dell’Appennino bolognese, Bo­logna.

Ciancio O., Fioravanti M., Tani A., 2002. Aspetti tecnologici e selvicolturali del castagno. Atti del “Convegno Nazionale Castagno 2001”, Marradi (FI), 25-27 ottobre 2001. Pp. 311-326.

Eynard I., Paglietta R., 1966. Contributo allo studio delle cultivar di castagno nella provincia di Torino. Atti Conv. Castagno, Cuneo, 1966.

Ferrare S., 1933. Il castagno con riferimento particolare alla provincia di Reggio Emilia. Bologna.

Fiorentini G., 1984. Problemi della castanicoltura in Emilia-Romagna e possibili soluzioni. Atti del “2° Convegno Interregionale del Castagno, Prima Giornata”, Castel del Rio, 14 maggio 1983. Pp. 9-22.

Giannini R., Proietti Placidi A.M., 1997. Il castagneto da frutto. Tecniche colturali, di impianto e principali metodi di innesto. Regione Veneto, Manuale di divulgazione tecnica. 39 p.

Grassi G., 1990. Considerazioni sul miglioramento e la valorizzazione delle cultivar di castagno da frutto. Monti e Boschi, l.

Grassi G., Forlani M., 1992. Le cultivar di castagno da frutto di maggiore importanza economica. Atti del Convegno Nazionale sulla Castanicoltura da Frutto. Avellino, 21 e 22 ottobre 1988. Pp. 47-62.

Grassi G., Pugliano G., 1977. Primi risultati di ricerche condotte sulla castanicoltura da frutto nell’Italia meridionale. Atti “Giornata del Castagno”, Caprese Michelangelo (AR), 3 dicembre 1977. Pp: 274-278.

INFC, 2005. Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi Forestali di Carbonio. Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Ispettorato Generale - Corpo Forestale dello Stato. CRA - Istituto Sperimentale per l’Assestamento Forestale e per l’Alpicoltura.

Magini E., Tani A., Canciani L., 1988. Primi risultati di esperimenti sul castagno (Castanea sativa Mill.) svolti in Romagna. In: Scritti di Selvicoltura in onore del Prof. Alessandro de Philippis. Tipografia Coppini. Firenze.

Mariotti B., Maresi G., Maltoni A., 2009. Tradizione, innovazione e sostenibilità: una selvicoltura per il castagno da frutto. Atti del Terzo Congresso Nazionale di Selvicoltura. Taormina (ME), 16-19 ottobre 2008. Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze. Pp. 851-857.

Morettini A., Saccardi A., 1951. Le varietà di castagni da frutto coltivati nel Monte Amiata. C.N.R. Centro Studi sul Castagno, pubblicaz. N. 1.

Paci M., Tani A., 1981. Primi risultati di alcune esperienze sul casta­gno (Castana sativa Mill.). L’Italia Forestale e Montana, 4: 186-200.

Paglietta R., Bounous G., 1979. Il castagno da frutto. Edagricole.

Paglietta R., Eynard I., Bounous G.C., 1977. Orientamenti della ricerca castanicola in Piemonte. Frutticoltura, 3-4, 1977.

Pennacchini V., Vanni G., 1977. La coltura e la mano d’opera. Atti “Giornata del Castagno”, Caprese Michelangelo (AR), 3 dicembre 1977. Pp: 57-69.

Pisani P.L., 1956. Le varietà di castagno da frutto nella provincia di Arezzo. Tesi di laurea, A.A. 1955-56, Firenze.

Pisani P.L., Bagnaresi U., Sansivini S., Giannini R., 1977. Problemi ed orientamenti della castanicoltura tosco-emiliana. Atti “Giornata del Castagno”, Caprese Michelangelo (AR), 3 dicembre 1977. Pp: 21-53.

Polacco F., 1938. Indagine sulla coltivazione del castagno da frutto in Italia. Istituto Centrale di Statistica.

Sansavini S., Avolio S., Bassi D., Bounous G.C., Casini E., De Beni F., Grassi G., 1979. Aspetti produttivi, colturali e varietali della castanicoltura da frutto. In: Produttività e valorizzazione dei castagneti da frutto e dei cedui di castagno. Accademia Nazionale di Agricoltura, Bologna. Pp. 85-144.

Tagliaferri A., Adua M., Berizzi D., Simonetti F., 2002. La castanicoltura in Lombardia: aspetti tecnico-gestionali ed economici e prospettive di sviluppo. Atti del “Convegno Nazionale Castagno 2001”, Marradi (FI), 25-27 ottobre 2001. Pp. 300-306.

Tamaro D., 1940. Trattato di frutticoltura. Ed. Hoepli, Milano.

Tani A., 1985. Prime osservazioni su differenze varietali nel castagno. Atti: Incontro sul castagno da frutto. In Notiziario Tecnico ERSO. Cesena.

Tani A., Canciani L., 1993. Il recupero produttivo dei castagneti da frutto. Arti Grafiche Tamari, Bologna. 45 p.

Associazione nazionale Città del Castagno
Contatti
Via Vittorio Emanuele, 9 – 55032 Castelnuovo di Garfagnana (LU) 
info@cittadelcastagno.it

cittadelcastagno@pec.it
Presidente
Coordinatore Tecnico
©2024 Associazione nazionale Città del Castagno
 P.IVA: 90006020466
linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram